In una recente intervista su Il Corriere Economia il CEO di Galbusera Roberto Serra racconta le strategie del gruppo alimentare di biscotti e snack salati, snocciolando i temi caldi, quali la crescita esterna con l’acquisizione di Tre Marie, il salto di dimensioni conseguente, la distribuzione degli impianti e la loro saturazione, la scelta strategica di aver selezionato solo grani italiani, provenienti da Piemonte, Lombardia ed Emilia.
Quest’ultimo aspetto si lega direttamente alla scelta del mercato salutistico dell’alimentazione oltre che del controllo della produzione.
Interessante è che si tratta di un indirizzo strategico dato dalla famiglia Galbusera come lo stesso Serra spiega, che viene definita “ossessione per la qualità delle materie prime” e la presenza di assaggiatori.
E aggiunge: “non a caso nel nostro mondo vanno bene le aziende familiari”: affermazione molto interessante.
La famiglia proprietaria dell’azienda, per forza di cose, è uno dei possibili perni di una visione strategica a lungo termine dell’impresa e del suo modello di business, della strategia di posizionamento e un po’ di tutta l’identità. E questo si concretizza con la presenza della famiglia nel CDA e con strumenti di condivisione continua della strategia, ma anche con strumenti di rendicontazione che l’alta direzione e il CEO devono sviluppare e presentare.
L’importanza di questi strumenti si dimostra ancor più vitale in presenza di generazioni successive a quella di costituzione e fondazione dell’impresa, allorché occorre mantenere coesi i vari rami della famiglia la cui parentela si allontana e i cui patrimoni iniziano ad essere inevitabilmente separati e destinati a investimenti diversi.
L’altro aspetto interessante di cui si parla nell’intervista è la crescita di una “prima linea di manager” che Serra ha coltivato, fatto crescere fornendo loro il modello di gestione nell’ottica di ciò che egli definisce “imprenditività”.
Ma tutto questo richiede ancora una volta strumenti di cogestione, confronto, misurazione e delega esattamente come la relazione di condivisione tra proprietà e CEO.
E’ la costruzione del modello di governance, degli strumenti di delega e controllo e la crescita dei team di direzione il perno fondamentale della gestione di un’azienda complessa e strutturata. Questo avviene spesso con il coinvolgimento di figure professionali esterne e terze, advisor, revisori, commercialisti, avvocati di impresa, consulenti di direzione aziendale della proprietà e del management.
PS: i biscotti di Galbusera sono davvero buoni!
Per chi vuole discuterne: gianluigi@gianluigimelesi.com
Nel suo recente studio globale sui brand, Deloitte mette in evidenza una tendenza che già da qualche anno mostra la fiducia consistente sui marchi storici ed emergenti: la fiducia sui marchi storici c’è e si mantiene, dunque, ma non può mai essere data per scontata.
La cosa interessante di questa ricerca a cura di Andrea Laurenza è la potenzialità anche di marchi minori, piccoli brand, emergenti di affermarsi sul mercato in tempi relativamente brevi, soprattutto tra le generazioni (per i prodotti di consumo e durevoli) più giovani.
Recentemente si è anche assistito all’affermazione di marchi che erano stati abbandonati in passato, ripresi e rilanciati da nuovi progetti, segno che tutti gli investimenti in passato hanno lasciato l’eco di una riconoscibilità nei consumatori: gli esempi di Moncler e Le Vans sono conosciuti, ma ci sono anche Pino Silvestre e Vidal ad opera di Mavive Spa.
Progettare, realizzare, avviare e portare un brand ad affermarsi sul mercato richiede grandi capacità di project management, risorse e competenze molto variegate, spesso difficili da far “stare insieme” e legate a percezioni e assetti valoriali psicografici. E’ un lavoro molto paziente di costruzione fatto di molteplici aspetti spesso complessi, articolati, peculiari e di natura diversissima, che devono avere una coerenza di insieme spesso difficile da realizzare e che non dà certezze di risultati.
Basta un piccolo errore, una incoerenza anche banale, un aspetto non curato a sufficienza, una reazione dei marchi attuali non prevista per chiudere le barriere all’ingresso per far crollare tutta la “piattaforma di lancio” e di sostegno del nuovo marchio e anche di un marchio storico e il marchio scivola inesorabilmente.
Esistono esempi storici di marchi andati in declino per aspetti tecnologici o di cambiamento dello stile di vita: Blockbuster, Abercrombie, Blackberry Nokia, Kodak e altri. Ma altri marchi sono scivolati verso l’oblio a causa di cattive politiche di posizionamento: l’esempio di Alviero Martini – Prima Classe è paradigmatico e ha fatto scuola come nascita e tramonto.
Il marchio quindi racchiude in sé in modo ideale un po’ tutto l’insieme di valore del prodotto servizio, e deve essere mantenuto di valore attraverso investimenti, ma anche attività di manutenzione, di approfondimento, di conservazione del valore, di sua evoluzione all’evolversi del mercato, della società e delle percezioni.
Investire su un marchio, creare e sviluppare un brand ha storicamente ragioni davvero imbattibili, spesso legate alla facilità nella comunicazione del valore del brand stesso:
Riconoscibilità e protezione dell’identità e dell’unicità del brand e valore di immagine anche con i mercati dei capitali e in generale degli investitori
Possibilità di sfruttare economicamente l’asset rappresentato dal marchio attraverso licenze, diritti di sfruttamento, royalties e altre valorizzazioni l’immagine e cessioni
Per settori legati al BtoB e in generale alle commesse e non al prodotto la possibilità di dare valore unitario e a un unicum a un sistema di valori, vantaggi competitivi, avviamento e capitale immateriale
Possibilità di comunicazione e azione di mercato veicolata, di creare un panel di clienti fidelizzati e referenti e che a loro volta promuovono il marchio, della rete di distribuzione e del prodotto stesso.
Vantaggi fiscali, incentivi e contributi pubblici, e altri vantaggi
Dunque, pensare a un marchio e alla sua affermazione sul mercato – incluse le piattaforme digitali – come la strategia anche di aziende medio-piccole per misurare la capacità di capitalizzare, tesaurizzare ogni singola azione e politica di prodotto, distribuzione, comunicazione ottenendo un avviamento, un goodwill riconosciuto e riconoscibile.
Chi voglia discutere dell’organizzazione di questo importante piano di azione mi contatti: gianluigi@gianluigimelesi.com
Non mancano nel panorama editoriale diversi testi tecnici (e articoli scientifici) molto esaustivi e al contempo divulgativi che chiariscono bene dal punto di vista contenutistico il concetto di Intelligenza Artificiale, come è nato storicamente il termine, come si è sviluppata la storia del cosiddetto “apprendimento della macchina”, le tipologie, gli approcci.
La domanda che però emerge sempre in azienda (e spesso, ironia della sorte guarda caso all’interno delle case editrici nell’analizzare un testo o addirittura nel generarlo per la pubblicazione) è quanto sia vero che la macchina pensi.
Gli imprenditori, che in Italia spesso non hanno scolarizzazione elevata, o comunque specifica nel campo della tecnologia legata all’AI, curiosamente pongono sempre la stessa domanda che così posso riassumere: “ma è un programma solo un po’ più flessibile, sofisticato e potente per i dati che riesce a masticare o è proprio intelligenza che pensa?”
Ecco, leggendo questo libro, mi è tornata a mente proprio questa domanda, in particolare al concetto di “pensare” e al significato che ognuno di noi dà al termine. Accenno solo qui di aver sentito l’autore alla radio dire egli stesso quanto tutti, credo, abbiamo capito e banalmente che se proviamo a chiedere allo strumento qualcosa che conosciamo bene, ci accorgeremo che magari lo strumento risponde in base a ciò che è stato inserito in esso, coscientemente, o incoscientemente, consapevolmente o dolosamente.
Non voglio svelare nulla dei 10 miti ben riassunti e “puntuti” cioè ideonei a lanciare – come ogni testo deve fare – la riflessione circa questa tecnologia apparentemente così “disruptive” dirompente e devastante in certi suoi aspetti. Questo libro è appunto un contributo critico, non è un manuale, ma parlando di intelligenza, cito la scheda che ben riassume la ragion d’essere di questo prezioso contributo, cioè per citare Manzoni, l’intelligenza della sua narrazione: “tra rigore e leggerezza, il libro decostruisce semplificazioni, suggerisce nuove prospettive, stimola domande. Senza offrire facili risposte, invita a riflettere sul modo in cui raccontiamo l’IA – e su quanto quelle narrazioni influenzino le nostre scelte, le nostre paure, il nostro futuro.”
Chi lavora e vive la vita aziendale avrà riconosciuto l’approccio critico, introspettivo e consapevole che dobbiamo da sempre avere con la persona umana, con il capitale umano aziendale e l’intelligenza degli esseri umani: e perché, dico io, a maggior ragione non dovremmo averlo con quella artificiale?
La famiglia contro la multinazionale. C’eravamo tanto amati, ma ora i soci fondatori di Fattorie Osella, che detengono 49% circa delle quote escono dal CDA dell’azienda in dissenso con il socio di maggioranza, la multinazionale Mondelez.
Si sa che la famiglia decise di cedere la maggioranza, mantenendo la propria presenza fondamentale per la gestione, per “garantire lo sviluppo industriale di Fattorie Osella” e questo è molto chiaro, sul lato distributivo del prodotto e sulle tecnologie e “porte” che Mondelez consente di aprire.
Altrettanto chiare sono le motivazioni di questo strappo laddove si parla della necessità di mantenere il legame con il territorio, l’eredità morale e la qualità dei formaggi. Chi ha orecchie per intendere, dunque ha inteso benissimo e se così non fosse ci sono le parole di Rossella Osella: “Sono convinta che le aziende alimentari abbiano il dovere di restituire parte di ciò che hanno ricevuto e ricevono dalla terra”.
La presenza di un socio esterno alla famiglia o ai fondatori, che sia una multinazionale (molti sono i casi nel passato, anche nello stesso comparto alimentare) o un fondo di investimento, richiede dunque la costruzione di un delicato meccanismo di governance sulle strategie. E occorre mettere in conto che il matrimonio di interesse può dopo qualche tempo essere in crisi e arrivare a una separazione, consensuale o meno.
Nonostante queste criticità e questi rischi quella di far entrare un esterno mantenendo una presenza nella gestione e nella proprietà maggioritaria o minoritaria dei fondatori resta una delle opzioni strategicamente più importanti e di successo per diversi aspetti tra cui possiamo indicare i principali:
Gestire passaggi generazionali e il patrimonio familiare, anche immobiliare
Avere una valutazione di azienda che sia oggettiva e indichi dove è il valore
Avere accesso a canali di distribuzione e mercati altrimenti non accessibili
Fare investimenti fondamentali per mantenere la competitività e accedere al credito e ai mercati
Raggiungere le dimensioni minime per competere, anche in relazione al capitale umano e ai mercati esteri
Sviluppare la presenza e le relazioni imprenditoriali con professionisti e manager con esperienza nel mercato altamente qualificati interni e esterni
Far crescere le nuove generazioni con “insegnanti” di eccellenza diversi dalla propria famiglia
Ridurre il rischio e avere piani A-B-C per l’azienda e per i soci in continuità in anticipo
Nonostante il mercato dei capitali abbia l’arma dei soldi da investire, ricordiamo sempre che la cosa che vale di più e che non si può comprare è un piano industriale e un imprenditore che lo crea e lo porta avanti. E se ci fosse tra gli investitori qualcuno che ci permette di realizzarlo prima e con maggiore successo?
Per chi volesse approfondire: gianluigi@gianluigimelesi.com
Un po’ tutti i professionisti e anche, in senso ampio le aziende, utilizzano le referenze, scritte e pubblicate sul proprio sito internet, o segnalate anche solo come nominativo citato, per attestare ai potenziali nuovi clienti imprenditori la propria competenza ed esperienza nelle attività di cui si occupano.
In questo modo l’azienda che si avvale di una collaborazione, nel mio caso nel campo del project management, attraverso uno o più temporary manager o consulenti di direzione aziendale può essere più confidente nello scegliere di farsi affiancare da figure con preparazione adeguata in un progetto di riorganizzazione o ridefinizione voluto.
Un progetto di riorganizzazione aziendale può essere legato, vuoi, più semplicemente, all’implementazione della struttura organizzativa, alla formazione manageriale, allo sviluppo di competenze e strumenti evoluti per prendere decisioni; vuoi anche, nei casi più complessi, a temi critici come la ridefinizione della strategia aziendale, l’ingresso di un fondo o di un socio, il passaggio generazionale, l’inserimento di un management come soluzione per dare continuità al business aziendale, la valutazione di azienda e in genere le operazioni straordinarie di M&A.
Al termine del percorso l’azienda esprimerà la propria soddisfazione per l’attività svolta dagli aziendalisti coinvolti nel team (spesso allargato ai professionisti societari, avvocati di impresa, tributaristi, consulenti del lavoro e via dicendo), evidenziando i risultati raggiunti e confrontando il percorso con le aspettative.
In tutti questi casi sopra esemplificati, l’attività vera e propria viene preceduta, nell’ottica della qualità del servizio altamente professionale, da una fase di definizione dei bisogni che viene evidenziata in una diagnosi di tipo strategico per la presa di coscienza delle motivazioni e degli strumenti a disposizione.
Il manager o consulente aziendalista non è un notaio o qualcuno che da fuori portasoluzioni tecniche, cambi di clima organizzativo, coaching, mentoring o in generale metodologie manageriali preconfezionate o comunque chiavi in mano, magari accettate, ma non comprese fino in fondo dalla proprietà aziendale.
Al contrario questi strumenti e queste visioni, queste “strade per la crescita manageriale” devono essere fatte proprie dal capitale umano aziendale, dalla proprietà, dal management e dai collaboratori tutti che ci devono credere fino in fondo e devono mettersi in discussione.
Ecco allora che alla fine del percorso, il consulente team leader della squadra di aziendalisti che ha lavorato al caso aziendale è in grado certamente di esprimere a sua volta un giudizio sul grado di raggiungimento degli obiettivi tipicamente “immateriali” di crescita del capitale umano, delle competenze di gestione delle risorse umano, di motivazione dello stesso, al grado di adesione all’identità aziendale, alla gestione dei conflitti e al “coraggio” di affrontare le incomprensioni, e in generale alla motivazione d’essere sul mercato dell’azienda, risultati spesso “percepiti”, “sentiti”, “avvertiti” con stati d’animo, più che misurati con scale semantiche o razionali, ma non meno importanti.
Questi obiettivi più “immateriali”, si affiancano naturalmente a quelli più razionali, concreti e misurabili: esemplificando, il nuovo ERP è proattivo e permette la gestione per eccezioni senza necessitare di perdersi nei numeri; il nuovo CRM è integrato, seguito in modo tempestivo, dà analisi ma anche diagnosi, consente di fare budget affidando obiettivi; la Business Intelligence assolve tempestivamente ai compiti della nuova normativa che prevede strumenti evoluti in azienda per la gestione del rischio; e via dicendo.
Ne sono però il completamento, il senso e la lettura più profonda per orientare i comportamenti quotidiani e ridurre al minimo tempi delle riunioni, le discussioni sui “sarà” “per me” “ogni volta”.
In due parole: i comportamenti organizzativi si sono evoluti? Sono orientati al risultato, sono supportati da processi basati su dati e informazioni in tempo reali e ben profilate? C’è la sensazione che il bambino, il ragazzo ora è un adulto che non si perde in polemiche, gelosie e chiacchiere? Che è conscio di come si comportava in modo inadeguato prima? Oppure: il mercato, il consumatore, il cliente, il mondo è cambiato, vogliamo cambiare anche noi e prendere il coraggio a due mani senza paura, senza rendite di posizione, e zone di conforto? Bene tutto questo è un passo avanti, una crescita che il consulente attesta all’imprenditore, al manager, ai collaboratori una volta coinvolti nel nuovo modo di fare impresa.
Ma c’è molto altro che l’aziendalista, il consulente o manager ad interim può attestare, quale sia un po’ un visitatore che vede l’azienda da fuori, dall’alto, ma anche dal basso (spesso dal basso, lato collaboratori, da fuori, lato mercato, concorrenza, mondo esterno che si evolve), che dà un giudizio terzo e obiettivo non sono contestuale ma con una visione di lungo periodo, di strategia organizzativa.
Per essere fino in fondo obiettivo questo giudizio deve comprendere alcuni aspetti critici, per esempio:
Se con il progetto abbiamo apportato valore è innanzitutto dato dal fatto di non aver più bisogno su quel tema di acquisire queste competenze dal consulente e questa crescita acquisita: “quando si diventa più grandi non si torna indietro, camminiamo con le nostre gambe”.
Se la proprietà ha dato fiducia al consulente anche se all’inizio non disponeva inevitabilmente tutti gli strumenti per valutare fino in fondo il valore del progetto riorganizzativo, ora ha preso completa padronanza della metodologia e delle competenze apportate, le fa proprie, inclusa la necessità di verificare costantemente il modello organizzativo: “sono io ora il consulente in azienda che rimette tutto costantemente in discussione, non siamo un ministero e l’azienda è una cosa viva e la strategia più vincente è l’adattamento”
Se all’inizio proprietà, dirigenza, management, figli e parenti in azienda, soci erano un po’ un tutt’uno, ora si comprende come i ruoli, gli strumenti, le metodologie sono definiti dall’organizzazione e dai processi, ed esiste un livello di decisione e gestione che si prende la responsabilità e deve avere le deleghe per raggiungere i risultati, misurati rispetto a strumenti e misuratori pianificati, cioè alla base della delega: “il vero capo dell’azienda sono gli strumenti per scaricare a terra e realizzare una strategia di mercato definita: comandano le procedure, comandano gli obiettivi, non le persone”.
Se l’azienda prima era un po’ slegata, senza raccordo tra le varie funzioni, con “buchi” nei gestionali, poca o non completa integrazione dei dati, con necessità di continuo intervento della proprietà per “chiudere i buchi”, magari a volte risolvendo un problema, ma creando inefficienze, priva di un comitato di gestione che costantemente garantiva la gestione armonica e consapevole, ora la proprietà, il management, i responsabili e i collaboratori hanno una visione di insieme: “l’azienda non è la mia o la tua scrivania, è un corpus unico e deve essere gestito in modo corale e consapevole”.
Se l’azienda ha compreso di non poter essere leader di mercato con ingenti risorse finanziarie, saprà anche che perderà tutte le battaglie sul prezzo più basso da offrire al cliente e se è così, l’imprenditore capisce fino in fondo che deve continuamente costruire la propria nicchia, quota, parte del mercato dando valore al cliente, personalizzazione, servizio, diversificazione e innovazione, studiando gli errori dei manager dei big del settore che tendono a massificare, imporre al cliente e standardizzare la strategia: “dobbiamo essere i primi a conoscere a fondo il mercato, dobbiamo essere unici e diversi, dobbiamo essere la soluzione a un problema del cliente.”
Questi sono solo alcuni degli esempi dei “voti” che sommessamente, spesso con molto pudore e rispetto per chi rappresenta spesso una storia e un’eccellenza sul mercato per altri aspetti, un manager in affitto, quale il consulente è, attribuisce all’imprenditore e ai suoi collaboratori, i quali restano al centro del valore della trasformazione poiché senza una presa di coscienza nessuno, tantomeno da fuori, può imporre il cambiamento.
Con l’approvazione al Senato della “legge Sbarra” sulla partecipazione dei dipendenti alla gestione dell’azienda per cui lavorano, dopo 77 anni, trova finalmente applicazione l’articolo 46 della Costituzione che recita: “ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.”
Buone notizie quindi? Non molto.
Negli ultimi anni negli altri Paesi occidentali e soprattutto di quelli anglosassoni, si sono create forme di partecipazione dei dipendenti al capitale sociale e agli utili, ma soprattutto alla gestione nell’ottica di favorire un loro maggiore interesse alla vita sociale e imprenditoriale. Questa elevazione economica e sociale è mirata proprio a creare un clima di coinvolgimento e partecipazione alle decisioni che determinano i risultati aziendali, creando un clima di lavoro migliore e gratificando i collaboratori destinando a essi parte dei risultati al raggiungimento dei quali hanno contribuito con il proprio lavoro.
Ma il coinvolgimento non avverrà però in modo automatico: dovrà essere previsto e regolato da contratti collettivi che ne dovranno stabilire le regole di base e le modalità concrete di attuazione ed i meccanismi di selezione dei rappresentanti dei lavoratori. Sono quindi escluse moltissime che non hanno rappresentanza sindacale, in pratica quasi tutte le PMI, che rappresentano il 72% dei lavoratori.
La nuova legge, in particolare, prevede la possibilità di includere i rappresentanti dei lavoratori nei consigli di sorveglianza, nei consigli di amministrazione e in altre posizioni decisionali per garantire una visione più equa e condivisa degli obiettivi aziendali il che esclude tutte quelle aziende, prive di consigli di sorveglianza e con organi di gestione monocratici o comunque privi di rappresentanza di professionisti e sindacalisti.
A questo proposito, l’indicazione di un sindacalista in base a un accordo contrattuale collettivo e delle modalità di attuazione, anche se la legge stabilisce che “i lavoratori devono essere coinvolti nel processo di selezione”, limita la possibilità che i lavoratori vengano davvero coinvolti nella scelta di professionisti terzi, competenti e preparati, indipendenti anche e soprattutto dalle logiche sindacali, che svolgano un vero ruolo di crescita della capacità del lavoratore di comprendere le esigenze aziendali e di operare le scelte nell’interesse dell’azienda e di tutti gli attori coinvolti.
Per quanto riguarda la partecipazione economica e finanziaria dei dipendenti al risultato, vengono poi introdotti incentivi fiscali legati alla distribuzione degli utili aziendali ai lavoratori e piani di partecipazione finanziaria che permetteranno ai lavoratori di acquisire azioni aziendali, anche in sostituzione di premi di risultato, il che fa pensare che non vi sia un “di più” ma un “invece” cosa che rischia di trovare opposizione tra chi vede da un lato qualcosa di certo oggi e dall’altra di incerto e aleatorio domani.
Il colpo di grazia è stato il fatto che nella votazione del testo di legge definitivo è stato ridotto da 10mila a 5mila euro il limite per l’applicazione dell’imposta sostitutiva del 5% sugli utili distribuiti ai lavoratori. Eliminata, inoltre, la possibilità di esentare dal reddito contributi destinati a forme pensionistiche complementari o assistenza sanitaria derivanti dalla redistribuzione degli utili.
Insomma, si rischia di avere solo qualche “poltrona in più” nei CDA e nei consigli di sorveglianza delle grandi e grandissime imprese occupata dai sindacati o loro delegati, tramite loro persone di fiducia, nessuna crescita della “elevazione economica e sociale dei lavoratori” e poco o nulla di distribuzione degli utili e dei dividendi ai dipendenti.
Davvero, se fosse così, se non vi fosse una crescita di cultura economica dei lavoratori, di partecipazione alle scelte e di condivisione dell’identità dell’azienda sul mercato e veri incentivi fiscali sui dividenti ai dipendenti sarebbe molto rumore per nulla.
Non basta che l’azienda avverta presso la sede legale le pubbliche autorità di sicurezza della lista dei venditori porta a porta: dovrebbe farlo in tempo reale con tutti gli oltre 8000 sindaci dei comuni di Italia?
La notizia proviene dalla Valsassina, provincia di Lecco: una venditrice porta a porta del Folletto (Vorwerk) la nota marca viene scambiata per una truffatrice e si scatena il putiferio, poi il Comune di Ballabio decide di multare l’azienda per non aver comunicato al Sindaco, in funzione di responsabile della pubblica sicurezza, il nominativo della povera signora.
Il sindaco sostiene che, da parte dell’azienda, la comunicazione tardiva del nominativo è una ammissione di colpa da parte della multinazionale. Possiamo immaginare che una azienda così dimensionata non sia in grado nell’era del digitale di avvisare ogni singolo sindaco di Italia o, piuttosto, la normativa non è chiara?
E come mai se il Sindaco è il responsabile della sicurezza, non è stato, lui, messo a conoscenza dei nominativi dallo Stato che ne è in possesso, per tramite della Pubblica Sicurezza (Carabinieri) comunicati a questa della sede legale di Vorwerk (Milano)?
Lo Stato richiede all’azienda ciò che l’azienda stessa ha già comunicato diligentemente allo Stato?
Comunque sia, anche avesse ragione il Sindaco di Ballabio (LC) che sfida l’azienda aggressivamente a presentare ricorso se non vuole pagare, la sostanza è che l’azienda forse semplicemente è stata ingabbiata dalla burocrazia indistricabile delle normative astruse stratificatisi sulla materie, ogni volta, una volta di più, ancora una volta.
Si parla da secoli di sportelli unici per le aziende, magari presso le Camere di Commercio che dovrebbero verificare loro che l’azienda adempia agli obblighi di legge, che cambia continualmente, invertendo il flusso delle comunicazioni (ah. le newsletter dei commercialisti…) invece di esser l’azienda a rincorrere le mille norme, ma evidentemente nessuno ha fatto nulla.
Insomma: va bene. Il Sindaco avrà sicuramente ragione, l’azienda avrà sicuramente torto. Ma è questo che è importante per l’avvenire di questo Paese? Avere ragione? Punire le imprese? Rendere loro impossibile l’attività operativa? Renderla ai poveri dipendenti che girano porta a porta?
La polvere da aspirare, magari anche con gli aspirapolvere in vendita porta a porta, sono sempre i lacci e il lacciuoli di cui parlava Guido Carli, mentre le aziende soffocano in questa giungla medievale di leggi, regolamenti e normative, regionali, locali e nazionali, spesso in contraddizione tra loro, imposte da signori e signorotti locali e nazionali.
Fare strategia di impresa è come creare evento sportivo ogni volta nuovo e al contempoche vive del valore della tradiizione e dell’avviamento negli anni
In questo testo di qualche anno fa, ma che conserva in toto la sua attualità e il suo valore, Il Business degli Eventi Sportivi – Alessandra Sorrentini – Giappichelli Editore 2010 troviamo una rigorosa analisi per la costruzione di un vero Master Plan Strategico di posizionamento degli eventi, prima ancora di stendere il progetto vero e proprio.
Come tutti i libri impostati come manuale pratico è innanzitutto una bella check-list utilissima agli attori che vengono coinvolti in questo particolarissimo business, gli Stakeholder dell’evento: Promotore, Organizzatore, Partecipanti, Pubblico, Autorità Politiche e Comunità Locali Ospitanti, Spettatori, Sponsor.
Ci suggerisce quindi che i soggetti interessati e coinvolti alla vita di un’impresa, ma aggiungo io, che influenzano il successo sono spesso molti di più e molto più articolati di quanto si creda ad un esame iniziale limitato alla catena del valore del prodotto servizio.
Per mantenere viva una strategia, per renderla sempre efficace, attuale e di successo, inoltre occorre che questa analisi ambientale degli Stakeholders sia permanentemente condotta (attraverso strumenti manageriali, business plan, figure apicali aziendali, comitati,sponsorship, eventi) esaminando i fatori esterni anche non direttamente legati al mercato dell’azienda che possono scombinare le regole del gioco nel settore del’limpresa.
Lo sviluppo della digitalizzazione, l’intelligenza artificiale, le evoluzioni sociali e culturali nell’ambito soprattutto delle generazioni più giovani che attraverso i social cambiano gli stili di consumo e influenzano gli altri, il mercato del lavoro delle giovani generazioni e le aspettative di queste in termini di ricerca lavoro sono alcuni esempi.
E’ dunque anche e spesso soprattutto il mondo esterno che fornisce input all’azienda sui possibili cambiamenti oltre che l’azienda a dover cercare innovazione tecnologica, di servizio, di prodotto per mantenersi competitiva sul mercato.
Un altro spunto molto interessante è una sorta di analisi dei fattori di cui tenere sempre conto nel progettare un’azione sul mercato, uno stress-test vero e proprio:
La complessità dell’azione in termini di dimensione
le finalità che non sempre coincidono con l’obiettivo a breve
le caratteristiche tecniche che spesso sono un ostacolo per il cliente o beneficiario dell’azione
Le attività preparatorie, quelle da condurre durante l’azione sul mercato e quelle post per mantenere i benefici dell’azione
Le ricadute politiche, economiche, sociali, culturali
La natura del soggetto che svolge l’azione
La specificità e particolarità degli strumenti dell’azione
La risonanza dell’azione
L’utilità del libro è proprio in questo aspetto di spiegare come far convivere esigenze contingenti del mercato/prodotto con un respiro di lungo termine che la strategia richiede, cosa che spesso deve studiare chi vuole acquisire una quota di mercato.
Immaginiamo quindi la strategia come una competizione sportiva in cui l’imprenditore si allena per poter poi gareggiare sul mercato. C’è chi è più bravo in allenamento e chi lo è in gara, ma chi è in gara non potrà mai esserlo senza allenamento!
Il comportamente speculativo a breve termine spesso insegna più di quanto ci si immagini.
Si parla spesso di Start-Upcome modello da seguire costantemente anche per aziende storiche e affermate, che devono presidiare un vantaggio competitivo consolidato per non sedersi sugli allori. In effetti una start-up, cioè una nuova iniziativa imprenditoriale richiede tipicamente alcune riflessioni fondamentali da mantenere nel modello di business anche in aziende già consolidate:
Come ragiona oggi il mercato per la soddisfazione di un determinato bisogno e come viene misurato il valore dell’offerta attuale, con quali modelli, algoritmi, logiche per il cliente
Quali sono le innovazioni di tecnologia, servizio, perimetro del prodotto e catena del valore che la nuova iniziativa garantisce per “sparigliare le carte” e quindi come ridefinire domani il mercato/settore/prodotto stesso
Comereagiranno gli attuali competitor per riprendersi le quote di mercato, e impedire con barriere all’ingresso, taglio dei prezzi, azioni per mettere in difficoltà i clienti e quali sono le difese a tali contro offensive previste e prevedibili
Esiste anche un altro tipo di iniziative imprenditoriali che può fornire diversi spunti interessanti, e in particolare quelle legate a eventi unici e non ripetuti (convegni, fiere itineranti, concerti), a manifestazioni sportive legate al territorio (gare ciclistiche come i grandi giri, Olimpiadi) oppure culturali (per esempio la ricorrenza legata a una città per un anno eletta a città della cultura) e altri esempi simili.
Si tratta di aziende cosiddette one-shot che nascono, si realizzano e si sciolgono nell’arco temporale limitato di poche settimane o, addirittura, pochi giorni.
Questa tipologia di business, che può diventare anche l’inizio di start-up che istituisce un appuntamento sul calendario che non c’era e poi riesce a mantenere una clientela costante, per esempio le sagre enogastronomiche, oltre alle caratteristiche sopra indicate, hanno alcune specificità molto interessanti:
Lo studio dell’ambito locale o contestuale come un fermo immagine, ricerca di geomarketing cioè la conoscenza del territorio, della popolazione, della cultura e degli stili di vita e di consumi locali, in un determinato momento, con collegato lo studio della ricettività turistico alberghiera, il calendario degli eventi attuali, la stagionalità, e altri fattori puntuali
La collaborazione strategica con le autorità e amministrazioni locali che spesso sono uno dei “clienti” di tali eventi usando fondi pubblici specifici nazionali o locali, quindi il chi fa cosa e per chi.
L’integrazione con gli attuali gestori del turismo che continuano ad avere voce in capitolo prima e dopo l’evento che richiede di “ricavare uno spazio” nel consueto calendario.
Nel business one-shot e se volete nelle logiche del short-term viene massimizzato l’utile a breve termine laddove si concentrano i ricavi che devono subito superare i costi e le risorse utilizzate. I comportamenti quindi sono tipicamente finalizzati a tattiche incisive con riscontro immediato, e a una analisi di sostenibilità immediatamente di effetto, e meno alle strategie tipicamente di lungo periodo del lancio di un brand.
La cosa interessante è che in realtà, spesso, questi comportamenti dello “short-termismo” hanno rilievo e interesse anche in una azienda e un business in particolare a lungo termine e in particolare:
I costi sono certi, i ricavi incerti: nel breve termine opero con un taglio dei costi mettendo in sicurezza il conto economico producendo a breve l’effetto di sfruttamento al massimo delle eventuali risorse sovradimensionate e il taglio degli sprechi.
L’effetto nel medio termine è potenzialmente di mettere sotto stress la soddisfazione del cliente, quella dei collaboratori e in generale l’immagine aziendale di affidabilità o prestigio.
Il risultato di questa combinazione è positivo nel breve termine e questo profitto assicura risorse per adattare e aggiustare progressivamente le risorse necessarie ai risultati e non viceversa.
Inoltre l’esaminare qui e ora la fattibilità obbliga alla concretezza misurabile e assicura un minore rischio di incorporare nel business plan dell’iniziativa una sorta di wishful thinking su evoluzioni e previsioni.
Il business orientato al breve termine è stato oggetto di severe critiche soprattutto in occasione di fallimenti di note società che non hanno saputo essere reattive di fronte alla trasformazione di lungo periodo e hanno perseguito rigidamente il profitto speculativo a breve termine ignorando il baratro che si avvicinava.
In realtà sono proprio le aziende che gestiscono nel brevissimo tempo il risultato legato a un evento o ragionano a brevissimo termine che insegnano molto a gestire entrambi i piani di valutazione senza eccedere nell’idea del lungo termine – che comporta un rinvio continuo del ritorno dell’investimento o della misurazione costi benefici, ma neanche nel breve termine, che comporta una visione speculativa della relazione con il cliente.
Se immaginiamo come strategica la relazione con il cliente il mix ideale è:
Valutare la cosa più importante: i miei concorrenti, spesso leader di mercato, quanto sono rigidi e reattivi? Posso sottrarre quote di mercato specifiche senza/prima che se ne accorgano e che reagiscano?
Dare al cliente costantemente un sistema prodotto / servizio chiaro e misurabile con un costo accettabile per l’azienda e un valore misurato come giusto per ciò che a lui serve senza sovrabbondare nelle risorse utilizzate per generare il prodotto e servizio.
Trovare il giusto equilibrio tra il fornire un prodotto/servizio standard rigido e uno personalizzato e ogni volta su misura evitando di svilire il valore del servizio e il costo per questo modello organizzativo dato dall’ossessione di strafare
Misurare costantemente a breve la soddisfazione del cliente e poi puntualmente e periodicamente con una relazione verso il cliente sempre viva e aggiornata adeguando il mix offerto
Non esistono, come sempre nell’economia aziendale, ricette precostituite: agli estremi ci sono business tipicamente costruiti sull’avviamento di marchi e immagine a lungo termine dove atteggiamenti speculativi distruggono valore, opposti a business tipicamente speculativi e a breve termine che massimizzano comportamenti di arbitraggio a brevissimo tempo, per esempio un posizionamento asimmetrico di mercato ritenuto eccessivamente distante tra domanda e offerta.
Le rendite di posizione sono tipiche di quest’ultima casistica: per anni studi dentistici tradizionali in Italia hanno goduto di profitti alti poiché la concorrenza non esisteva. La presenza di catene è stata introdotta proprio sulla base di questa considerazione con una tattica aggressiva di erosione dei margini.
Lo stesso sta avvenendo nel settore dei servizi funerari o in quello delle farmacie sulla base di un piano progressivo di acquisizioni da parte di aggregatori.
Qual è allora la mia strategia, quale la mia tattica giusta come azienda?
Ogni anno qualcuno aggiorna la lista dei lavori, delle professioni, dei prodotti o dei servizi destinati a scomparire sostituiti dalla tecnologia o dall’Intelligenza Artificiale ma a furia di pubblicare il necrologio ogni anno si è poco credibili.
Solo pochi anni fa doveva scomparire il libro fisico soppiantato dall’e-book, ma a quanto pare non sarà così come riporta questo articolo: https://www.tonerbuzz.com/blog/paper-books-vs-ebooks-statistics/ in cui si spiega come 79% degli acquisti su Amazon (non parliamo delle librerie) è su libri in carta e che 68% dei lettori tra 18 e 29 anni prediligono il libro in carta.
Negli ultimi anni molte liste di mestieri destinati a morire si sono ripetitue e dopo qualche anno che viene appeso il manifesto funerario di qualcosa, inizia a sorgere il dubbio che non stia morendo.
Ecco la lista più comune:
Cassiere
Postino
Tassista e autista
Operatore turistico
Assistenza clienti e televendite
Cameriere, cuoco, barista
Contadino
Consulente finanziario (investimenti di privati)
Contabile, impiegato amministrativo
Stampatore ed editore
Questi ultimi, gli editori e gli stampatori, li abbiamo già trattati parlando di libri, ma è intuitivo anche per gli altri, che, per parafrasare qualcuno “la notizia della loro morte è quantomeno esagerata”. Per esempio il postino, e lo sappiamo bene qui in Italia dove Poste Italiane ha messo la “marcia indietro” ritornando al servizio postale universale come investimenti perché l’e-commerce semmai richiede più postini e non meno postini.
Il fatto che esistano bar, ristoranti e tavole calde, fast-food che hanno tablet o lavagne interattive con i quali si può ordinare, non significa che i camerieri scompariranno: il vantaggio del servizio tramite tablet non è solo la velocità, ma la tracciabilità, l’analisi dei dati. Non è detto che questo format abbia un’incidenza di costi di personale inferiore.
Resterà comunque il desiderio del contatto umano del servizio in tutti quegli esercizi dove la clientela lo sceglie tra i fattori più importanti, fosse pure fare due chiacchiere con il barman nel più classico dei cliché.
Non mi esprimo sugli autisti automatici e le macchine autoguidate: direi che al momento gli esperimenti non fanno vedere molto, anzi, con l’incremento del turismo, pare che la domanda di autisti e taxisti sia triplicata nelle grandi città.
Per quanto riguarda gli impiegati contabili e tutte le attività amministrative l’orizzonte dell’evoluzione della digitalizzazione dei cicli contabili è già chiara, e la tecnica (la partita doppia, le quadrature, le verifiche, le estrapolazioni, gli allineamenti, le chiusure) sarà portata avanti dalla tecnologia pianificando il dato che viaggerà in digitale, lasciando alla risorsa umana le attività a maggior valore aggiunto quali il budget, l’analisi degli scostamenti, la formazione sulle risorse umane, le scelte strategiche, alla pianificazione acquisti e materiali, alla gestione stock, alla programmazione della produzione e del servizio, allo studio del mercato potenziale, il servizio al cliente, la partecipazione alle riunioni dei comitati di direzione allargando la “mera contabilità” alla più strategica attività del “data management”.
La tecnologia quindi spesso non sistituisce professioni, ma le fa evolvere togliendo la parte discrezionale (per i lavori di concetto) e ripetitiva o fisica per far guidare i processi alle risorse umane in luogo di farli eseguire dando ai collaboratori la vera attività che contribuisce al risultato e togliendo loro le routine noiose e ridondanti dei cicli di registrazione.